"Liberare
le persone, non liberalizzare le sostanze"
Testimonianza di Pina Canonica
Da CARITAS INSIEME TV
D: Qual
è la sua reazione di fronte agli esperimenti di distribuzione controllata
di eroina?
R: Mi arrabbio profondamente. Per me è inaccettabile. Si scherza
sulla pelle degli altri; un tossicodipendente non è uno zombie, andare
in questa direzione è creare un mondo di zombie viventi in uno Stato
incapace di proporre altro.
D: Ma tutto sommato non è meglio proporre una soluzione che va nel
senso della distribuzione controllata di eroina piuttosto che lasciare i tossicodipendenti
sulla strada, con tutti i problemi che ne derivano. E da lì partire per
fare altre proposte. Che cosa c'è di sbagliato in questo discorso? Questo
glielo chiedo non per avere un'analisi sociale della situazione, ma perché
questo problema l'ha vissuto sulla sua pelle tramite l'esperienza di suo figlio
Francesco.
R: Sbagliano perché pensano che la droga vinca la droga. La droga
è morte fisica, psicologica e spirituale. Come si può avere una
posizione come quella, se non senza avere approfondito adeguatamente la questione?
Anch'io ci ho pensato diverse volte; ho visto mio figlio, l'abbiamo seguito.
Ma quella proposta significa gettare la spugna, e non farsi carico della fondamentale
esperienza dell'educazione. Un'educazione che dovrebbe prevenire e quando il
soggetto è ormai caduto nella tossicodipendenza, prenda in mano questa
situazione per salvare l'uomo. Anche in buona fede non si può proporre
una droga legalizzata; e poi non mi sembra che ci siano stati buoni risultati.
I risultati ottenuti con il metadone, la droga sintetica, hanno dimostrato di
non risolvere niente. Si ricade sempre, non avvengono cambiamenti sostanziali.
Certo, un individuo va a lavorare, porta i soldi a casa, mangia, paga l'affitto;
questo è il ragionamento corrente, come se tutte queste fossero le cose
più necessarie. Ricordo che mio figlio Francesco, dopo tre anni di comunità,
diceva che aveva imparato ad apprezzare il lavoro e il valore dei soldi. Non
possiamo dare la droga e dire ai tossicodipendenti di andare a lavorare. (...)
Dicono che sia il minor male, ma si sbagliano perché la persona non ha
vie d'uscita. Si dice che i drogati siano degli irriducibili, ma anche questo
è falso. C'è sempre la possibilità si uscirne, e ritengo
questa decisione miracolosa: ci vuole coraggio a fare una scelta tanto radicale
perché bisogna lasciare gli amici, la famiglia, e anche l'esperienza
negativa che però tutto sommato a loro andava bene.
D: Andare in comunità vuol dire cambiare completamente la propria
vita...
R: Certamente. Senza cambiamento non succede niente. La comunità
aiuta perché innanzitutto accetta il drogato come persona nelle sue debolezze.
Da qui riparte la costruzione, che si fa assieme agli altri, con una metodologia,
con delle regole dure che possono indurre alla fuga. Francesco mi diceva spesso
di voler scappare, ma poi rivedeva i volti, della famiglia e di tutti, e ripensava
al grave errore che avrebbe commesso. I ragazzi riflettono su dove sono arrivati,
su cosa hanno lasciato e infine si accorgono che quella è la strada giusta.
Ritengo che non si debba liberalizzare le sostanze, ma liberare le persone.
La proposta concreta è la comunità e solo in questo senso bisogna
darsi da fare. Il discorso della droga controllata è utopistico; può
darsi che qualcuno ce la farà, ma sarà stato grazie all'aiuto
di Dio e comunque da soli non ci si salva. Bisogna incoraggiare i genitori a
non perdere la speranza, capire che da questo male è venuto un gran bene
e che questo non è opera nostra. (...) Tutte le cose belle e buone che
ci sono, hanno dietro di esse uno scotto, una sofferenza. L'uomo deve godere
della vita, ma la sofferenza, che non è solo fisica, è sempre
presente. Vivere non è facile, non si vorrebbe dover soffrire ma è
inevitabile. La droga darà pure un sollievo temporaneo, ma dà
anche sofferenza e si vuole vincerla ancora attraverso la droga. È uno
stare bene che fa sempre più star male.
D: Come aiutare a comprendere il misterioso percorso della sofferenza a chi
fa molta fatica ...
Bisogna comprendere il senso della vita. Proporlo e proporlo con gioia, e all'interno
di questa proposta la sofferenza è presente: così si apre uno
spiraglio. E poi, soprattutto, non lasciare i ragazzi soli. Nel nostro caso
abbiamo incontrato la sofferenza anche nella malattia, l'AIDS.
D: Come fare questo cammino?
R: Non ho percorso questo cammino con Francesco nella disperazione, ma nella
speranza. A volte Francesco sperava nel miracolo, ma quando la malattia è
peggiorata non è stato facile per lui accettarla. Neanche per noi lo
è stato. Abbiamo dovuto accettare l'evidenza dei fatti: la malattia andava
avanti e lo portava anche allo sfacelo fisico. Ma io ho sempre sperato e pregato
che alla fine Francesco accettasse la sua situazione con serenità. È
stato un cammino duro, ha volte ci si chiedeva il perché di tutto questo.
Ci sono state ribellioni (...). Ma ad un certo punto la malattia non mi fatto
più tanto timore. In ospedale era accompagnato dal calore umano di tutto
il personale. Quando è venuto a casa era ormai al termine e sentiva di
aver poco tempo; telefonava ai ragazzi in comunità, per dire loro che
se si dovevano parlare o vedere, dovevano farlo presto. Ma lo diceva con serenità,
dando forza a noi tutti. Il Venerdì Santo c'è stato un grande
andirivieni di amici. Il medico era contrario perché voleva che il ragazzo
riposasse. Ma Francesco rispose che prima veniva l'accoglienza.
Voglio sottolineare che queste cose sono avvenute in lui perché le ha
vissute anche prima di ammalarsi con altri ragazzi. Mio figlio andava a Roma
a trovare i ragazzi malati di AIDS, e ne ha visti tanti soffrire e morire ed
adesso accadeva a lui. (...)
La sera del Sabato Santo c'eravamo quasi tutti e ci disse di fare silenzio,
affinché potesse dirci una cosa. Ci disse: grazie! Ancora oggi quando
ci penso mi commuovo; fu un momento di grazia, ci ringraziava per essergli stati
vicini fino alla fine. La notte fu molto dura. Il mattino di Pasqua abbiamo
visto che stava male, mi ha chiamata e mi detto un qualcosa che non sono riuscita
a capire bene; mi avvicinai e capii che mi diceva "Buona Pasqua, mamma".
Questo poco prima di morire.
Gli misero l'ossigeno ma lui rimaneva molto calmo. Il nostro parroco ci disse
che se non fossimo andati a Lugano, sarebbe venuto lui più tardi. Giunto
il parroco, abbiamo pregato tutti assieme e gli ha dato la benedizione. Al termine
il prevosto ci lasciò il numero di telefono nel caso in cui avessimo
avuto bisogno. Francesco in quell'attimo sbiancò. Ho avuto l'impressione
che fosse la carezza di Dio.
È stato un dono, anche la morte. In questo senso la si vede in un'altra
ottica. Anche le cose belle, vede, hanno una dose di sofferenza: prima per la
droga per lui e la nostra famiglia poi per quel cammino fatto in comunità,
per il quale vale la pena soffrire, in seguito la malattia, che insegna sempre
qualcosa, e infine la morte, che vissuta in quel modo non è più
morte. Morire il giorno di Pasqua è stato un dono, e lui credeva in questo.
(...)
Questa è stata la nostra esperienza. Sono quindi del parere che mai da
soli si può uscire dalla droga.Lo dico con forza. Ci sono delle persone
che escono dalla droga senza passare dalla comunità, ma è sempre
perché hanno fatto un incontro di qualcosa o di qualcuno. Per questo
dico no alla droga legalizzata e al metadone: si scherza sulla pelle degli altri
ed è una responsabilità che come persona e come cristiana non
voglio prendermi. (...)
L'ho visto invece partire in comunità contento, forse perché era
una cosa nuova. È vero, aveva la spada di Damocle sulla testa, perché
era già sieropositivo e sapeva che non avrebbe avuto una vita lunga.
Ma è riuscito a vivere quei sette anni veramente bene, grazie alla comunità
e al lavoro collettivo di tutti. Ecco, questa potrebbe essere la breve storia
di Francesco.